Abbiamo approvato una legge sull’IA mal pensata, mal scritta e mal discussa. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: scarse risorse, discutibile impianto di governance, deficit di attenzione verso le imprese italiane e il mercato nazionale, infine un approccio burocratico in un quadro nazionale privo di un ecosistema digitale nazionale in cui collocare anche l’IA. E ora cosa fare? Occorre una visione industriale
L’Italia ha voluto prendersi la ribalta: essere il primo Paese europeo a dotarsi di una legge nazionale sull’intelligenza artificiale. Un primato rivendicato con enfasi, celebrato con toni trionfalistici. Ma a guardare bene il testo appena approvato, l’impressione è quella di un provvedimento fragile, privo di risorse reali e con una governance che rischia di allontanare l’Italia dai mercati internazionali più che avvicinarla.
Velocità o direzione?
L’errore di fondo è evidente: confondere la velocità con la direzione. Essere i primi a legiferare non significa essere i più lungimiranti.
Al contrario, l’Italia rischia di essere ricordata come il Paese che ha approvato una legge vuota, rinviando ai decreti attuativi — nei prossimi 12 mesi — le decisioni cruciali. Inutile ricordare che 12 mesi sono un’eternità in un settore dove un ciclo tecnologico dura appena 6 mesi. E così, mentre Roma attende, il resto del mondo accelera.
Risorse: un miliardo “virtuale” contro centinaia di miliardi reali
Il governo italiano ha annunciato un investimento complessivo di 1 miliardo di euro. Ma si tratta di risorse più virtuali che reali. Tutto è basato su un “Fondo di fondi” gestito da CDP Venture Capital con l’obiettivo di attrarre capitali privati, non di stanziare denaro fresco. L’Italia, insomma, non mette sul tavolo quasi nulla.
Il paragone con i partner europei è impietoso.
La Francia ha mobilitato un piano da 109 miliardi di euro: di cui 10 miliardi di fondi pubblici diretti, decine provenienti da fondi sovrani esteri (da 30 a 50 miliardi di euro), più un programma di formazione che punta a 100.000 giovani esperti di IA all’anno, senza dimenticare 20 miliardi destinati all’integrazione dell’IA in campo militare.
La Germania ha già previsto 3 miliardi di euro solo nel 2025 e punta a generare il 10% del proprio PIL dall’intelligenza artificiale entro il 2030.
La Spagna ha lanciato oltre 4 miliardi di euro per modernizzare la pubblica amministrazione con l’inserimento di soluzioni IA, inoltre ha finanziato il supercomputer Mare Nostrum 5 e ha creato un fondo Next-Tech forte di altri 4 miliardi di euro.
E poi c’è l’Europa. Bruxelles ha promesso 50 miliardi di euro di risorse pubbliche e 150 miliardi di investimenti privati per l’IA tra Horizon Europe, Digital Europe e InvestEU. A confronto, i numeri italiani valgono meno dell’1% degli impegni della Francia e appena un duecentesimo degli investimenti previsti dalla UE.
Governance: il trionfo della burocrazia
Ma forse il punto più critico è la governance. La Commissione europea aveva raccomandato di istituire un’autorità indipendente, capace di vigilare sull’IA con lo stesso grado di indipendenza e con la stessa autonomia delle autorità per la privacy o per la concorrenza.
L’Italia ha scelto la strada opposta: affidare la supervisione ad AgID, che si occupa di digitalizzazione delle pubbliche amministrazioni, e ad ACN, dedicata alla cybersecurity e alla difesa. Due agenzie governative, prive di indipendenza, senza reale sensibilità per il mercato e per le imprese.
In questo modo il Paese si condanna a una vigilanza burocratica, prigioniera della logica dei palazzi ministeriali, incapace di dialogare con startup, centri di ricerca, imprese nazionali e multinazionali tecnologiche.
Mentre altri Paesi creano agenzie snelle e dotate di veri poteri, l’Italia moltiplica strutture, tavoli tecnici e cabine di regia: un vecchio vizio che rallenta tutto e non produce nulla.
Il resto del mondo corre
E mentre Roma resta ferma, il resto del mondo si muove, anzi corre e non a parole.
La Francia dispone già del supercomputer Jean Zay per la ricerca sui modelli di intelligenza generativa. La Germania costruisce alleanze con Siemens e SAP per spingere sull’IA industriale. La Spagna ha istituito un’Agenzia per la supervisione algoritmica con poteri effettivi.
Fuori dall’Europa, il divario è ancora più netto. Gli Stati Uniti hanno varato un maxi-pacchetto di investimenti e godono della leadership tecnologica di Microsoft, Google, OpenAI e NVIDIA. La Cina, dal canto suo, ha fatto dell’IA uno dei pilastri del piano Made in China 2025, investendo miliardi in semiconduttori, cloud e modelli generativi, con strategie aggressive per attrarre talenti dall’estero e trattenere i talenti nazionali.
Di fronte a questi numeri e a queste strategie, la legge italiana sull’IA appare per quello che è: un documento debole, costruito più per propaganda che per visione, incapace di posizionare l’Italia nella geografia globale dell’innovazione.
Una chiamata alla responsabilità
Ma la partita non è persa. L’Italia ha eccellenze accademiche, centri di ricerca competitivi e un tessuto di PMI innovative che possono essere protagoniste, se sostenute concretamente da politiche lungimiranti.
Occorre però correggere la rotta subito: istituire un’autorità indipendente, stanziare risorse reali e pluriennali, rafforzare i programmi di formazione dei talenti e costruire partnership pubblico-privato che diano respiro internazionale.
Non basta legiferare per primi.
Serve una visione industriale, servono regole chiare e servono investimenti veri. Altrimenti, come troppe volte è accaduto, l’Italia resterà spettatrice marginale, mentre il futuro si decide altrove.