Lula scommette sull’Amazzonia: il Brasile vuole riscrivere la finanza climatica

| 22/09/2025
Lula scommette sull’Amazzonia: il Brasile vuole riscrivere la finanza climatica

Dal podio dell’ONU a New York, Lula annuncerà il primo investimento nel fondo Tropical Forests Forever, un meccanismo rivoluzionario che trasforma le foreste tropicali in un asset finanziario globale. Un test di leadership per il Brasile e una sfida al Nord e al Sud del mondo, chiamati a ripensare insieme le regole della cooperazione climatica.

Alle Nazioni Unite, tra le luci solenni del Palazzo di Vetro, Lula non presenterà soltanto un progetto di tutela ambientale. Presenterà una scommessa geopolitica: trasformare la più grande foresta tropicale del pianeta in una leva di finanza internazionale. Con l’annuncio del primo investimento brasiliano nel Tropical Forests Forever Facility, il Presidente brasiliano intende dimostrare che il Sud globale non è più solo spettatore o beneficiario di fondi climatici, ma protagonista capace di dettare nuove regole. È un gesto che intreccia politica, economia e diplomazia e che potrebbe ridefinire il ruolo del Brasile nella geografia del XXI secolo.

L’Amazzonia come capitale politica

La foresta amazzonica è molto più che un patrimonio naturale: è un campo di battaglia politico, economico e simbolico. Con i suoi 5,5 milioni di km², rappresenta il polmone verde del pianeta, regolatore climatico cruciale e habitat di biodiversità unica. Ma è anche sotto pressione costante: deforestazione illegale, agricoltura estensiva, estrazione mineraria e traffici criminali ne erodono ogni anno migliaia di chilometri quadrati.

Per Lula, riportare l’Amazzonia al centro del dibattito globale significa due cose. Sul piano interno, ricostruire credibilità dopo gli anni bui del bolsonarismo, segnati da record di deforestazione. Sul piano internazionale, presentarsi come leader in grado di collegare la tutela ambientale alla giustizia climatica, rivendicando un ruolo di primo piano per il Sud globale.

Un fondo che cambia le regole del gioco

Il Tropical Forests Forever Facility (TFFF) è concepito come un fondo patrimoniale da 125 miliardi di dollari, alimentato da contributi di governi, istituzioni multilaterali e capitali privati. Funzionerebbe come un endowment: il capitale non viene speso, ma investito. I rendimenti annuali diventano pagamenti regolari ai Paesi che conservano le proprie foreste.

Il principio è rivoluzionario perché introduce un incentivo stabile e diretto: più superficie forestale rimane intatta, più risorse economiche affluiscono. La natura smette di essere un costo da sostenere e diventa un asset che genera valore.

Per dare il via al meccanismo, il Brasile punta a raccogliere i primi 25 miliardi da Governi e grandi fondazioni filantropiche. Quel “capitale seme” dovrebbe attirare altri 100 miliardi dal settore privato, creando un effetto leva senza precedenti nella finanza verde.

La Cina e il nuovo equilibrio della finanza climatica

Se confermata, la partecipazione della Cina al TFFF sarebbe un evento dirompente. Finora la finanza climatica si è basata quasi esclusivamente sulle responsabilità storiche delle economie sviluppate. Pechino, pur essendo oggi il principale emettitore di CO₂, ha sempre rivendicato il ruolo di Paese in via di sviluppo, sottraendosi a obblighi finanziari diretti.

L’ingresso della Cina segnerebbe un cambio di paradigma: per la prima volta un grande Paese emergente contribuirebbe in maniera significativa alla tutela delle foreste. Sarebbe un gesto politico di portata simbolica enorme, in grado di ricomporre almeno in parte la frattura Nord-Sud che da anni blocca i negoziati sul clima.

Oltre alla Cina, interessi concreti sono già arrivati da Regno Unito, Francia, Germania, Norvegia, Singapore ed Emirati Arabi Uniti. Ma molti osservatori sottolineano che senza una mossa iniziale forte del Brasile, gli altri contributori difficilmente scioglieranno le riserve.

Il Brasile come garante della propria proposta

Non va dimenticato che il Brasile, ospitando la più grande foresta tropicale del mondo, sarebbe anche il principale beneficiario del TFFF. Senza un impegno diretto, la proposta rischierebbe di apparire come un esercizio di auto-interesse.

Ecco perché Lula ha deciso di investire per primo: per “mettere i soldi dove sono le parole”. È un atto politico che serve a costruire fiducia: se il Brasile è disposto a scommettere sulle proprie foreste, anche gli altri attori globali possono farlo.

Oltre la finanza: un test di governance globale

Il TFFF è anche un laboratorio politico. Da anni, le conferenze sul clima promettono cifre altisonanti che raramente si concretizzano. L’impegno dei Paesi ricchi a mobilitare 100 miliardi di dollari annui a favore del Sud globale, annunciato nel 2009, è ancora lontano dall’essere rispettato.

Il fondo brasiliano prova a rompere questo ciclo. Non più promesse aleatorie, ma un meccanismo istituzionalizzato e permanente, che genera flussi stabili. Se riuscirà, potrebbe diventare un modello per altre aree: dagli oceani alla protezione della biodiversità terrestre.

Lula e la leadership del Sud globale

Per Lula, il TFFF è anche un tassello della sua strategia personale: ricollocare il Brasile come potenza diplomatica del Sud globale, capace di parlare sia con Washington che con Pechino. La sua ambizione è guidare un fronte di Paesi emergenti che non vogliono più subire le regole scritte altrove, ma contribuire a scriverle.

Il fondo per le foreste rappresenta la sintesi perfetta di questa ambizione: legittimità naturale (l’Amazzonia), interesse nazionale (i pagamenti), e un messaggio politico chiaro (la responsabilità condivisa).

La foresta come moneta del XXI secolo

Quando Lula salirà sul palco dell’ONU, non annuncerà soltanto un investimento. Annuncerà un’idea: che le foreste tropicali, cuore fragile del pianeta, possano diventare la moneta politica del XXI secolo. Non più solo un ecosistema da proteggere, ma un capitale da remunerare.

Il successo o il fallimento del TFFF dirà molto più di quanto appaia. Non si tratta soltanto di piantare alberi o fermare la deforestazione: si tratta di dimostrare che il mondo può ancora costruire meccanismi comuni in un’epoca di divisioni crescenti.

Se il Brasile riuscirà a trascinare altri attori globali, l’Amazzonia potrà passare da simbolo di fragilità a pilastro della sicurezza climatica. Se fallirà, resterà il segno di un’occasione mancata e di un mondo incapace di mettere davvero “i soldi dove sono le parole”.

In entrambi i casi, il messaggio è chiaro: il futuro delle foreste è il futuro del pianeta. E la vera domanda, oggi, non è più se possiamo permetterci di salvarle, ma se possiamo permetterci di perderle.

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