Mentre Washington stringe i controlli sull’export dei semiconduttori, Pechino risponde colpendo il campione americano dei chip AI. L’indagine antitrust contro Nvidia non è solo un caso legale, ma un tassello di una più ampia guerra tecnologica che ridefinisce equilibri economici e geopolitici globali.
Per Nvidia, il colosso californiano dei chip che ha cavalcato l’onda dell’intelligenza artificiale fino a diventare una delle aziende più preziose al mondo, la Cina non è soltanto un mercato: è un campo di battaglia. L’indagine aperta da Pechino per presunte violazioni della legge antitrust non è un episodio tecnico, ma una mossa politica. Arriva mentre Stati Uniti e Cina si affrontano a colpi di blacklist, restrizioni e ritorsioni, trasformando i semiconduttori da prodotti industriali a veri e propri strumenti di potere globale.
Un annuncio studiato a tavolino
La notizia dell’indagine preliminare annunciata dalla State Administration for Market Regulation (SAMR) non sorprende per il contenuto, ma per il tempismo. È arrivata mentre a Madrid si svolgevano negoziati commerciali ad alto livello tra Washington e Pechino. In altre parole, la Cina ha scelto il momento giusto per aumentare la pressione sul suo interlocutore, mettendo in evidenza la vulnerabilità di un colosso simbolo della potenza tecnologica americana.
La logica della contromossa
Per molti analisti, la mossa della SAMR è stata una risposta diretta alla decisione dell’amministrazione Trump di inserire 23 aziende cinesi in una nuova lista nera commerciale. È la classica dinamica della diplomazia delle ritorsioni: se Washington stringe i rubinetti dei semiconduttori, Pechino mostra di poter colpire a sua volta le aziende americane, minacciando il loro accesso al secondo mercato mondiale.
Il messaggio, sottile ma chiarissimo, è che anche la Cina ha strumenti di pressione da usare al tavolo dei negoziati, e non esiterà a farlo.
Nvidia e la promessa infranta su Mellanox
L’inchiesta antitrust si concentra anche su un tema che va oltre le regole di mercato. Quando Nvidia acquistò nel 2020 l’israeliana Mellanox Technologies, Pechino diede il suo via libera solo a patto che l’azienda continuasse a fornire al mercato cinese i suoi GPU accelerators, essenziali per i data center e il supercalcolo.
Negli anni successivi, però, i controlli sulle esportazioni imposti da Washington hanno costretto Nvidia a tagliare l’accesso della Cina ai chip più avanzati. Una promessa mancata che oggi Pechino utilizza come leva legale, trasformando un vincolo commerciale in un’arma politica.
Multa o leva politica?
Nvidia potrebbe dover affrontare una multa tra l’1% e il 10% delle sue vendite in Cina, cioè fino a 1,7 miliardi di dollari. Una cifra significativa, ma non in grado di scalfire seriamente le finanze di un colosso che ha visto i propri ricavi esplodere con la corsa all’AI.
Il vero pericolo non è la multa, ma il segnale politico. Pechino potrebbe obbligare Nvidia a vendere chip senza tecnologia Mellanox o condizionare ulteriormente l’accesso al mercato. In pratica, un modo per indebolire la posizione di Nvidia in Cina e favorire i concorrenti locali.
Jensen Huang e la diplomazia dei semiconduttori
Il CEO di Nvidia, Jensen Huang, ha fatto della Cina una priorità personale. Nel 2024 ha visitato il Paese tre volte, incontrando partner e istituzioni per dimostrare la volontà dell’azienda di rimanere un attore strategico. Ma anche la diplomazia aziendale ha i suoi limiti: i semiconduttori non sono più semplici prodotti tecnologici, sono diventati un tema di sicurezza nazionale.
In questo scenario, la buona volontà dei manager conta poco. Le decisioni su accesso, limiti e divieti sono ormai appannaggio della geopolitica, non del business.
L’altra faccia della strategia cinese
Parallelamente, Pechino ha iniziato a monitorare con attenzione i propri campioni tecnologici. Aziende come Tencent e ByteDance sono state convocate per giustificare l’acquisto dell’H20, un chip progettato da Nvidia per rispettare i limiti americani. Le autorità hanno sollevato persino dubbi sulla sicurezza, chiedendo se questi processori contenessero backdoor in grado di compromettere i dati degli utenti cinesi.
È una strategia a doppio binario: da un lato mettere pressione su Nvidia, dall’altro spingere le big tech cinesi a ridurre la dipendenza da chip americani e ad accelerare lo sviluppo di soluzioni domestiche.
La guerra fredda dei semiconduttori
Il caso Nvidia si inserisce in una partita più grande: la corsa alla supremazia tecnologica tra Stati Uniti e Cina. I semiconduttori avanzati sono la linfa vitale dell’intelligenza artificiale, dei sistemi di difesa e della competitività industriale. Washington vuole rallentare l’accesso della Cina a questi chip, Pechino punta a costruire un ecosistema indipendente che la renda autosufficiente.
In questo scenario, Nvidia rappresenta un paradosso: è al tempo stesso indispensabile per la Cina e ostaggio delle restrizioni americane. Una posizione che la rende l’ago della bilancia della nuova Guerra Fredda tecnologica.
Nvidia, simbolo e bersaglio
La Cina difficilmente espellerà Nvidia dal proprio mercato: la domanda di chip AI resta enorme e i sostituti locali non sono ancora all’altezza. Ma l’indagine antitrust è un segnale inequivocabile: l’accesso non sarà mai più scontato e sarà subordinato alle logiche della geopolitica.
Per Nvidia, la sfida non è soltanto continuare a produrre i chip più potenti al mondo, ma imparare a sopravvivere in un ambiente in cui ogni innovazione diventa un’arma e ogni accordo commerciale un capitolo della competizione globale. Nella guerra dei semiconduttori, l’azienda di Jensen Huang è allo stesso tempo simbolo di potenza americana e bersaglio della risposta cinese.