Deep-sea mining: l’arma degli Stati Uniti contro la Cina rischia di minare l’ordine globale

| 28/08/2025
Deep-sea mining: l’arma degli Stati Uniti contro la Cina rischia di minare l’ordine globale

Washington accelera sui piani per estrarre minerali critici dai fondali oceanici per ridurre la dipendenza da Pechino. Ma muoversi fuori dalle regole multilaterali potrebbe erodere la governance internazionale e trasformare la sfida in un inatteso vantaggio geopolitico per la Cina.

Gli Stati Uniti guardano agli abissi oceanici come nuova frontiera della sicurezza economica. Con il deep-sea mining, Washington punta a garantire accesso a minerali critici indispensabili per l’energia verde e la competizione tecnologica con la Cina. Ma accelerare al di fuori delle regole multilaterali significa aprire un paradosso: nel tentativo di ridurre la dipendenza da Pechino, gli USA rischiano di rafforzarne la legittimità e minare l’ordine internazionale che da decenni dichiarano di difendere.

La nuova frontiera delle risorse strategiche

Negli Stati Uniti cresce la consapevolezza che il controllo sulle materie prime determinerà gli equilibri geopolitici del XXI secolo. Dopo i semiconduttori e il litio, ora l’attenzione si sposta sui fondali oceanici: lì, a migliaia di metri di profondità, giacciono noduli polimetallici ricchi di cobalto, nichel, manganese e terre rare. Elementi indispensabili per produrre batterie di nuova generazione, turbine eoliche, pannelli fotovoltaici e microchip. Washington intende avviare un’industria nazionale del deep-sea mining come parte integrante della sua strategia di sicurezza economica e tecnologica.

Il ragionamento è chiaro: diversificare le fonti di approvvigionamento per ridurre la vulnerabilità a possibili interruzioni. Oggi la Cina controlla circa il 70% della raffinazione globale di terre rare e oltre l’80% della produzione di componenti cruciali per le catene verdi e digitali. Per Washington, l’autonomia mineraria non è solo una questione di mercato, ma una priorità strategica.

La cornice giuridica e il dilemma americano

Il nodo è che i fondali oceanici non appartengono a nessuno Stato: sono regolati dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS) e amministrati dall’International Seabed Authority (ISA). Questa struttura multilaterale è nata proprio per evitare la corsa anarchica alle risorse comuni. Ma gli Stati Uniti non hanno mai ratificato l’UNCLOS, pur rispettandone molte disposizioni di fatto.

Questo colloca Washington in una posizione ambigua: da un lato si propone come difensore dell’ordine internazionale basato sulle regole, dall’altro rischia di delegittimarlo agendo unilateralmente attraverso leggi domestiche che autorizzino le proprie compagnie a operare nei fondali. Giuristi e diplomatici avvertono: se gli Stati Uniti apriranno la strada a uno sfruttamento fuori dal quadro ISA, la credibilità del sistema legale internazionale ne uscirà indebolita.

Un boomerang per Washington?

L’intento americano è ridurre la dipendenza dalla Cina. Ma paradossalmente, un approccio unilaterale potrebbe rafforzare proprio la posizione di Pechino. La Cina, che ha già licenze per esplorazioni concesse dall’ISA, potrebbe presentarsi come attore rispettoso del multilateralismo, conquistando consensi nel Sud globale. Molti Paesi emergenti guardano infatti con diffidenza a una nuova “corsa all’oro blu” dominata dalle potenze occidentali.

Se Washington scegliesse scorciatoie legislative, rischierebbe di alimentare la narrativa cinese: quella di una potenza disposta a rispettare le regole, in contrapposizione a un’America percepita come egemone selettiva. Un ribaltamento simbolico che potrebbe pesare sugli equilibri diplomatici, in un momento in cui il multilateralismo è già sotto pressione.

Dimensione economica e industriale: promesse e incognite

Le potenzialità economiche del deep-sea mining sono colossali. Alcuni studi stimano che le riserve abissali possano fornire metalli sufficienti a sostenere la transizione energetica per decenni. Per le imprese americane, entrare ora nel settore significa accaparrarsi una posizione di vantaggio in un’industria destinata a crescere.

Eppure, i rischi sono notevoli. I costi tecnologici sono altissimi: estrarre a 4.000 o 5.000 metri richiede flotte specializzate, robotica avanzata, sistemi di monitoraggio continui. Inoltre, la mancanza di regole chiare scoraggia i grandi investitori istituzionali. I fondi di private equity e venture capital osservano con interesse, ma senza certezze regolatorie difficilmente impegneranno capitali su larga scala. Qui si gioca anche una partita di finanza industriale: senza un meccanismo internazionale di risk-sharing, le aziende americane potrebbero trovarsi svantaggiate rispetto a competitor operanti con licenze ISA.

Il nodo ambientale e l’incertezza scientifica

Il tema ambientale è quello più controverso. Gli ecosistemi dei fondali oceanici sono tra i meno esplorati e più fragili del pianeta. Gli scienziati avvertono che l’estrazione su larga scala potrebbe distruggere habitat unici, alterare la biodiversità e compromettere cicli ecologici di cui conosciamo ancora poco. Per i governi occidentali, che hanno fatto della sostenibilità un pilastro narrativo, l’immagine di bulldozer sottomarini che devastano l’oceano rischia di diventare insostenibile politicamente.

Ecco perché si parla sempre più di diritto dell’innovazione ambientale: è possibile sviluppare tecnologie di estrazione “low impact”, sistemi di sorveglianza con intelligenza artificiale, robotica di precisione e protocolli trasparenti di tracciabilità ambientale? Se gli Stati Uniti riusciranno a coniugare sicurezza delle forniture e sostenibilità potranno proporsi come leader di un modello virtuoso. In caso contrario, il boomerang reputazionale potrebbe annullare i benefici strategici.

Finanza e mercati globali

Il futuro del deep-sea mining dipenderà anche dalle reazioni dei mercati. Oggi la finanza globale guarda con sospetto a progetti percepiti come rischiosi dal punto di vista ambientale o legale. ESG e finanza sostenibile sono diventati driver dominanti: se il settore verrà bollato come incompatibile con gli standard ambientali, gli investitori istituzionali potrebbero ritirarsi, lasciando spazio a operatori più opachi.

Gli Stati Uniti rischiano, quindi, di aprire un settore in cui i capitali occidentali resteranno ai margini, mentre attori cinesi o di economie emergenti, meno vincolati da criteri ESG, potrebbero avanzare. Un paradosso: la ricerca di autonomia strategica potrebbe trasformarsi in nuova dipendenza finanziaria e tecnologica.

Politica industriale e catene globali del valore

In prospettiva, il deep-sea mining rientra nella strategia americana di reindustrializzazione e politica industriale per la sicurezza nazionale. Dopo l’Inflation Reduction Act e i piani sui semiconduttori, il mare profondo rappresenta il nuovo terreno di scontro con Pechino. Ma la vera domanda è: come integrare il settore in catene di fornitura globali che restano inevitabilmente interdipendenti?

Anche se gli Stati Uniti riuscissero a estrarre in autonomia, il processo di raffinazione e trasformazione dei minerali continuerà a dipendere da infrastrutture e mercati globali in cui la Cina è ancora dominante. Per questo, più che una corsa all’indipendenza assoluta, il deep-sea mining deve essere letto come parte di una strategia di riduzione dei rischi (de-risking), in linea con l’approccio adottato anche dall’Unione Europea.

Governance globale: e’ possibile un “far west marittimo”?

In definitiva, la partita del deep-sea mining è meno tecnica di quanto sembri. Si tratta di decidere se le risorse dei fondali oceanici saranno regolate da un sistema multilaterale condiviso o se si aprirà la strada a un “far west marittimo” dominato da logiche unilaterali. La prima opzione rafforza l’ordine globale; la seconda rischia di accelerarne l’erosione.

Per gli Stati Uniti, la scelta sarà decisiva: agire in modo unilaterale significa ottenere forse un vantaggio immediato, ma al prezzo di compromettere la legittimità internazionale. Collaborare, invece, nel quadro ISA richiede compromessi, ma consente di preservare il ruolo di leader di un ordine basato sulle regole.

Tra autonomia e responsabilità

Il deep-sea mining non è soltanto la prossima frontiera delle materie prime: è un test cruciale per il futuro dell’ordine internazionale. In gioco c’è la capacità di coniugare innovazione, sicurezza economica e tutela ambientale con la credibilità politica delle democrazie.

La domanda che resta aperta è chiara: gli Stati Uniti useranno l’abisso come leva per rafforzare la governance globale o come terreno per accelerare la competizione unilaterale con la Cina? La risposta determinerà non solo il futuro delle risorse minerarie, ma anche la traiettoria dell’intero sistema internazionale.

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