Dalla Banca d’Italia alla BCE fino a Palazzo Chigi: retribuzioni record, patrimonio immobiliare e pensione da 14.800 euro al mese raccontano l’altra faccia del potere dell’uomo che ha segnato la storia dell’euro e resta tra le voci più influenti d’Europa.
L’Europa dopo Trump e l’appello di Draghi a Rimini
Al Meeting di Rimini del 2025, Mario Draghi ha consegnato un messaggio che è apparso come una diagnosi e insieme come un avvertimento. L’ex presidente della BCE ha osservato come l’Europa non possa più confidare unicamente nel suo peso economico per esercitare influenza sullo scenario internazionale. L’elezione di Donald Trump negli Stati Uniti, con la conseguente reintroduzione di dazi e una linea più assertiva sul piano militare, ha segnato un cambio di paradigma: le vecchie certezze di un ordine multilaterale stabile sono venute meno. Draghi ha sottolineato come, nei conflitti in Ucraina, Medio Oriente e Iran, l’Europa sia rimasta ai margini, ridotta a spettatrice più che a protagonista. Questa constatazione lo ha portato a rilanciare un appello per un’integrazione politica ed economica più profonda: solo attraverso strumenti concreti, come il debito comune e una politica industriale europea, l’UE potrà passare da comprimaria a protagonista nel nuovo ordine globale. Il discorso ha avuto l’eco di un testamento politico, ma anche di una visione strategica su ciò che serve per la sopravvivenza economica e geopolitica del continente.
Una carriera costruita tra istituzioni, finanza e riforme
La credibilità di Draghi nasce da un percorso che intreccia istituzioni pubbliche, mercati finanziari e accademia. Negli anni Novanta, da direttore generale del Tesoro, fu tra i principali artefici del programma di privatizzazioni italiane, trasformando il ruolo dello Stato nell’economia e aprendo il Paese al mercato globale. La cosiddetta “legge Draghi” ha cambiato le regole del gioco per le società quotate e le operazioni di takeover, introducendo trasparenza in un mercato fino ad allora opaco. In parallelo, la sua esperienza nel board di Goldman Sachs International (2002-2005) lo ha proiettato nella dimensione globale della finanza. L’approdo a Via Nazionale, come governatore della Banca d’Italia, ne ha consolidato l’immagine di “civil servant” con un’abilità rara: quella di muoversi tra logiche di mercato e responsabilità pubbliche. In quegli anni, il suo stipendio – circa 758.000 euro lordi all’anno – non fu solo un simbolo di status, ma il riflesso del livello di responsabilità esercitato in un momento di profonde trasformazioni economiche e regolatorie.
Francoforte e la BCE: meno reddito, più influenza
Il passaggio alla Banca Centrale Europea, nel 2011, segnò un cambio radicale. A Francoforte, Draghi guadagnava meno di quanto percepisse come governatore della Banca d’Italia, ma il peso politico e sistemico del ruolo era incomparabilmente maggiore. Con uno stipendio compreso tra 374.000 e 400.000 euro annui, Draghi ha guadagnato complessivamente circa 3,1 milioni di euro nei suoi otto anni da presidente. Tuttavia, ogni decisione presa in quel periodo ebbe effetti da migliaia di miliardi sui mercati e sugli equilibri dei conti pubblici europei. Il famoso “whatever it takes”, pronunciato nel luglio 2012, ha assunto valore storico non tanto per l’enfasi retorica, quanto per la sua efficacia pragmatica: fermò la spirale speculativa contro l’euro e restituì fiducia a un continente sull’orlo della disgregazione. In termini analitici, è l’esempio di come l’autorità e la credibilità di una persona possano incidere sul corso della storia economica quanto, se non più, delle politiche formali.
Palazzo Chigi: un premier tecnico in un Paese fragile
Nel 2021, nel pieno della pandemia e con l’Italia attraversata da una crisi istituzionale, Draghi fu chiamato a guidare il governo. La sua scelta di rinunciare allo stipendio da premier – circa 80.000 euro netti annui – fu letta come un gesto di sobrietà. In realtà, la decisione va letta dentro un contesto più ampio: Draghi non è mai stato un politico di professione, dipendente dall’indennità pubblica, ma un tecnico che arrivava a Palazzo Chigi con alle spalle una carriera internazionale e redditi consolidati. Con dichiarazioni fiscali che nel 2019 superavano i 580.000 euro e nel 2020 i 527.000 euro, la rinuncia allo stipendio ministeriale fu un atto simbolico, utile a rafforzare un’immagine di indipendenza e dedizione al bene pubblico. Per l’Italia e per l’Europa, la sua presenza a capo del governo fu percepita come garanzia di stabilità, ma anche come un’ulteriore conferma della sua capacità di muoversi tra economia, politica e istituzioni.
Patrimonio immobiliare e trasparenza istituzionale
Uno degli aspetti più discussi della figura di Draghi riguarda il suo patrimonio. La dichiarazione depositata all’inizio del suo mandato da premier ha reso pubblico un insieme di beni immobiliari distribuiti tra diverse aree d’Italia e all’estero. Dieci fabbricati, tra appartamenti e ville, da Roma ad Anzio, da Stra a Città della Pieve, fino a un appartamento a Londra; sei terreni, sempre a Stra, e una partecipazione societaria dal valore nominale di 10.000 euro. La trasparenza di questi dati consente di leggere la parabola di una carriera che non si limita ai compensi percepiti nei vari incarichi, ma che ha sedimentato un patrimonio coerente con un percorso professionale di altissimo livello. Ciò che colpisce, osservato in prospettiva internazionale, è come questo livello di disclosure patrimoniale rappresenti un unicum nel panorama europeo, dove non tutti i leader politici hanno obblighi simili di pubblicità.
Pensione d’oro e incarichi pro bono
Conclusa l’esperienza a Palazzo Chigi, Draghi è stato richiamato in Europa: la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, gli ha chiesto di elaborare un rapporto sulla competitività europea. Un incarico svolto a titolo gratuito, che conferma come il suo capitale reputazionale resti tra le risorse più preziose per l’UE. In parallelo, dal 2006, Draghi percepisce una pensione da dirigente pubblico pari a 14.843 euro lordi al mese (circa 8.600 netti), frutto di 40 anni di contributi. Una cifra che lo colloca nella fascia dei “pensionati d’oro” italiani, ma che riflette il livello di responsabilità e i carichi istituzionali accumulati. La combinazione di incarichi non remunerati e pensione elevata solleva inevitabilmente discussioni sull’equità del sistema previdenziale e sulla sostenibilità sociale, ma evidenzia anche un elemento cruciale: Draghi non è legato a logiche di remunerazione immediata, e ciò gli consente di muoversi con libertà nei ruoli di consulenza strategica.
Draghi come case study di leadership europea
Al di là delle cifre, la traiettoria di Mario Draghi rappresenta un case study sulla leadership economica in Europa. È la dimostrazione che competenza tecnica, credibilità personale e capacità di navigare tra mercati e istituzioni possono fare la differenza in momenti di crisi sistemica. Il suo percorso intreccia diritto dei mercati, innovazione regolatoria, politica industriale e diplomazia finanziaria. Per questo la sua voce continua a essere ascoltata con attenzione, anche a distanza di anni dal celebre “whatever it takes”. La sua parabola dimostra che il futuro dell’Europa dipenderà non solo da scelte macroeconomiche e geopolitiche, ma dalla capacità di produrre leader capaci di parlare al mondo con autorevolezza, visione e indipendenza. Draghi rimane, sotto questo profilo, un modello difficilmente replicabile.