Sabbia, potere e geopolitica: la Cina vuole estendere la sua Grande Muraglia Verde in Mongolia

| 26/08/2025
Sabbia, potere e geopolitica: la Cina vuole estendere la sua Grande Muraglia Verde in Mongolia

Un progetto transfrontaliero per fermare la desertificazione minaccia di trasformarsi in un banco di prova economico, tecnologico e politico: tra diplomazia verde, investimenti miliardari e nuove sfide di sicurezza ambientale nell’Asia orientale.

Una strategia transfrontaliera contro la desertificazione

Il progetto di estendere la cosiddetta Grande Muraglia Verde cinese al territorio della Mongolia segna un passaggio cruciale nella lotta globale contro la desertificazione. La Cina, che dal 1978 conduce il Three-North Shelterbelt Program, ha già piantato miliardi di alberi lungo i margini dei deserti interni, cercando di contenere le tempeste di sabbia che periodicamente avvolgono Pechino e gran parte dell’Asia orientale. L’ipotesi di una cooperazione transfrontaliera con Ulan Bator dimostra che la desertificazione non è più un tema confinato alla dimensione ecologica, ma un problema che incrocia sicurezza nazionale, stabilità economica e governance regionale.
La Mongolia, infatti, vede oltre il 70-80% del proprio territorio classificato come a rischio degrado ambientale, con conseguenze dirette su allevamento, agricoltura e salute pubblica. Le tempeste di sabbia che si originano nelle steppe mongole raggiungono non solo Pechino, ma anche Corea del Sud e Giappone, trasformando un problema locale in una questione geopolitica.

Opportunità economiche e industria verde in trasformazione

Se l’iniziativa dovesse prendere forma, gli effetti economici sarebbero rilevanti. Creare una “cintura ecologica” significa aprire un mercato di dimensioni continentali per nuove filiere industriali: vivaistica, ingegneria ambientale, irrigazione intelligente, energie rinnovabili integrate con le barriere verdi. In Cina si parla già di modelli “sand-plus-solar”, ossia la costruzione di parchi fotovoltaici nelle aree desertificate, capaci di ridurre la velocità del vento e contemporaneamente generare energia.
Per la Mongolia, che basa gran parte della sua economia sull’estrazione mineraria e sull’allevamento, l’iniziativa rappresenta una chance per diversificare i settori produttivi, attrarre investimenti stranieri e sviluppare un ecosistema di bioeconomia e agricoltura rigenerativa. Ma la sfida è duplice: creare valore economico e, al contempo, garantire che lo sfruttamento delle risorse idriche non peggiori il problema che si intende risolvere. Gli esperti sottolineano infatti che piantare milioni di alberi in zone aride può, se mal gestito, sottrarre acqua preziosa ad altri ecosistemi.

Il quadro giuridico e gli strumenti della cooperazione

Ogni progetto transfrontaliero richiede solide fondamenta normative. L’ipotesi di una barriera ecologica condivisa obbliga Cina e Mongolia a definire meccanismi di governance congiunta: chi decide le priorità? Chi controlla gli standard di sostenibilità? Come vengono ripartiti i costi e i benefici?
Sul piano del diritto internazionale, la cooperazione potrebbe basarsi su strumenti già esistenti come la Convenzione ONU per la Lotta alla Desertificazione (UNCCD), a cui entrambi i Paesi aderiscono, oppure assumere la forma di un accordo bilaterale vincolante che preveda comitati tecnici permanenti e sistemi di monitoraggio indipendenti. La sfida sarà garantire trasparenza, partecipazione delle comunità locali e tutela dei diritti delle popolazioni nomadi, che rischiano di essere le prime vittime di politiche ambientali calate dall’alto.

Tecnologia e innovazione: oltre gli alberi

La narrativa della “muraglia verde” non può essere ridotta al semplice atto di piantare alberi. Negli ultimi anni la Cina ha investito in tecnologie avanzate di stabilizzazione delle dune, utilizzo di semi geneticamente selezionati per la resistenza alla siccità, sensoristica IoT per l’irrigazione di precisione, e piattaforme satellitari per il monitoraggio della desertificazione.
Portare questo know-how in Mongolia potrebbe accelerare la transizione del Paese verso un’agricoltura più resiliente e, allo stesso tempo, offrire nuove opportunità alle imprese tecnologiche cinesi, pronte a espandere il proprio export ambientale. Tuttavia, il rischio è che si crei una nuova dipendenza tecnologica, in cui la Mongolia diventa mercato passivo di soluzioni sviluppate altrove, senza un reale trasferimento di competenze.

Geopolitica della sabbia: sicurezza ambientale come sicurezza nazionale

Sul piano geopolitico, il progetto ha un valore simbolico e strategico. La cooperazione ambientale diventa un elemento di soft power, attraverso cui Pechino rafforza la propria influenza sul vicino settentrionale, storicamente sospeso tra Russia e Cina.
La lotta comune alla desertificazione, però, non è solo diplomazia ecologica: è sicurezza regionale. Ogni anno, le tempeste di sabbia causano danni economici stimati in miliardi di dollari, interrompono traffici aerei, colpiscono la salute di milioni di cittadini e riducono la produttività agricola. Affrontare questo fenomeno congiuntamente significa anche ridurre rischi di instabilità sociale, migrazioni forzate e conflitti per l’uso del suolo.

Le criticità strutturali: tra miti e realtà della forestazione di massa

Gli esperti invitano alla cautela. Nonostante i successi della Cina, numerosi studi hanno documentato i limiti del modello della forestazione di massa: tassi di mortalità elevati degli alberi, scarsa biodiversità dovuta alle piantagioni monoculturali, impatti negativi sulla disponibilità idrica. In Mongolia, dove il clima è ancora più arido e le temperature invernali estreme, questi rischi potrebbero amplificarsi.
Per questo, le ONG ambientali suggeriscono un approccio integrato: meno enfasi sul numero di alberi piantati, più attenzione a pratiche agro-ecologiche, gestione sostenibile del bestiame e rinaturalizzazione dei corsi d’acqua. In altre parole, la lotta alla desertificazione non può essere delegata a un unico strumento tecnico, ma deve diventare politica industriale e sociale.

Un laboratorio globale per l’innovazione climatica

L’eventuale espansione della Grande Muraglia Verde in Mongolia potrebbe diventare un laboratorio internazionale di innovazione climatica, capace di integrare ecologia, economia e geopolitica. La sua riuscita dipenderà dalla capacità di Cina e Mongolia di adottare un modello di governance inclusivo, aperto alla cooperazione multilaterale e all’investimento privato responsabile.
Il successo o il fallimento di questo progetto non avrà impatto solo sui cieli di Pechino o Ulaanbaatar, ma su tutta l’Asia orientale. In un’epoca in cui i cambiamenti climatici mettono a rischio la stabilità economica globale, la costruzione di barriere ecologiche transfrontaliere non è più una scelta, ma una necessità strategica.

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