Il blocco dei progetti solari ed eolici deciso dalla Casa Bianca apre scenari dirompenti: tariffe in crescita, rischio blackout, fuga di investimenti e un indebolimento della competitività USA nella corsa tecnologica globale.
Un attacco politico che diventa crisi sistemica
La decisione di Donald Trump di non approvare nuovi progetti solari ed eolici rappresenta più di una semplice scelta ideologica. È il tassello di una strategia più ampia che punta a rafforzare le filiere tradizionali — petrolio, gas, nucleare — ma al prezzo di indebolire l’architettura energetica americana nel breve e medio periodo. Le critiche del presidente agli impianti eolici, accusati di “uccidere gli uccelli”, e ai pannelli solari, ritenuti invasivi per l’agricoltura, sembrano mascherare un approccio politico che privilegia consenso immediato e protezione di interessi consolidati, piuttosto che una visione di lungo termine. In un Paese dove la domanda elettrica è esplosa con l’avvento dell’intelligenza artificiale e dei data center, questo stop rischia di trasformare la transizione energetica in una crisi strutturale.
Permessi come arma politica
Il vero terreno di scontro non è solo la retorica presidenziale, ma la gestione amministrativa. Con il segretario all’Interno Doug Burgum che ha assunto il controllo diretto delle approvazioni, ogni progetto diventa ostaggio di decisioni politiche. Questa “centralizzazione straordinaria” è stata bollata dalle associazioni di settore come un atto di “ostruzionismo politico” senza precedenti. Anche i progetti su terreni privati, che in teoria dovrebbero sottrarsi a vincoli federali, sono bloccati da richieste di autorizzazioni ambientali. Si crea così un sistema di incertezza normativa che paralizza gli operatori e scoraggia gli investitori. Negare un permesso oggi equivale a rallentare un intero ecosistema industriale per anni.
Il caso Ørsted: il colpo simbolico alla fiducia degli investitori
La notizia arrivata in queste ore rende plastico il problema: il Bureau of Ocean Energy Management ha ordinato lo stop immediato alla costruzione del Revolution Wind Project al largo di Rhode Island, sviluppato da Ørsted. Un impianto già completato all’80%, con 45 turbine installate su 65 previste, bloccato a pochi mesi dall’entrata in funzione. La reazione dei mercati è stata brutale: il titolo della compagnia danese è crollato del 17%, toccando il minimo storico.
Il danno non è solo per Ørsted, già sotto pressione per un aumento di capitale da 9,4 miliardi di dollari. Il messaggio inviato a tutti gli operatori globali è devastante: gli Stati Uniti, considerati per anni il mercato più stabile e promettente, stanno diventando un terreno minato dove una decisione politica può cancellare in poche ore miliardi di investimenti. Come ha sottolineato Sydbank, se il progetto non dovesse mai entrare in funzione, Ørsted si troverebbe davanti a svalutazioni nell’ordine delle decine di miliardi e a un’esigenza di capitale ben superiore al piano attuale.
L’episodio è un campanello d’allarme per l’intera industria: non è più solo questione di incentivi o tariffe, ma della certezza di poter concludere progetti già in fase avanzata. Una frattura che mina la fiducia e rischia di ridisegnare la geografia degli investimenti energetici globali.
Effetti immediati: bollette più care e rete più fragile
Gli impatti si vedono già sul fronte più sensibile: il portafoglio dei consumatori. Le aziende del settore stimano che il blocco delle rinnovabili porterà a una carenza strutturale di capacità produttiva, con inevitabili aumenti delle bollette. Kevin Smith, CEO di Arevon, avverte che il Paese si sta avviando verso un “power crunch” di proporzioni inedite. Una rete elettrica già fragile, che deve garantire continuità a ospedali, scuole e aziende, rischia di collassare in alcune aree durante i picchi di consumo. L’alternativa? Ricorrere a gas o carbone, con tempi e costi non compatibili con le esigenze di breve periodo, aggravando anche l’impatto climatico.
Tariffe e instabilità: l’effetto domino sugli investimenti
Alla crisi regolatoria si sommano i dazi imposti dall’amministrazione su rame e acciaio, materiali chiave per pannelli solari e batterie. L’aumento fino al 30% dei costi di costruzione sta spingendo gli sviluppatori a rinegoziare i contratti con le utility. Questo genera una spirale di instabilità: i costi si riversano sulle famiglie e sulle imprese, mentre i piccoli operatori faticano a reggere il peso finanziario. Cliff Graham, CEO di Avantus, ha già visto i prezzi del solare raddoppiare in pochi anni, e prevede che saliranno a 100 dollari per megawatt-ora dopo la fine degli incentivi fiscali. Un prezzo che mette fuori mercato interi segmenti industriali e che potrebbe alimentare una nuova ondata di consolidamento, riducendo la concorrenza.
Il nodo fiscale: addio agli incentivi, addio alla crescita
Il One Big Beautiful Bill Act, fiore all’occhiello della politica energetica trumpiana, segna la fine di due pilastri che hanno sostenuto l’espansione delle rinnovabili: i crediti d’imposta sugli investimenti e sulla produzione. Dal 2027, solare ed eolico dovranno camminare senza incentivi, in un contesto di costi crescenti e permessi ostacolati. Gli operatori avvertono che dal 2026 il ritmo delle nuove installazioni crollerà, aprendo una fase di stagnazione. Per i piccoli e medi sviluppatori, incapaci di sopportare rischi e volatilità, potrebbe significare la scomparsa dal mercato. La politica energetica, in questo senso, si traduce in selezione naturale: sopravvivranno solo i grandi gruppi verticalmente integrati.
L’effetto IA: domanda in crescita, offerta in crisi
Mentre il governo blocca le rinnovabili, il fabbisogno elettrico cresce a ritmi senza precedenti. I data center per l’addestramento e l’esecuzione dei modelli di intelligenza artificiale assorbono quantità di energia paragonabili a intere città. PJM Interconnection, il più grande operatore di rete americano, ha già lanciato l’allarme: senza nuova capacità installata, l’equilibrio domanda-offerta non reggerà. Oggi oltre il 90% dei progetti in attesa di connessione riguarda solare, eolico e batterie. Bloccarli significa condannare il Paese a un deficit strutturale che nessun impianto a gas o nucleare, con i loro tempi lunghi, potrà compensare. In gioco non c’è solo la sostenibilità climatica, ma la stessa leadership americana nella corsa globale all’intelligenza artificiale.
Un’America meno attrattiva
Il danno non è solo interno. Multinazionali come Engie stanno già rivedendo le proprie strategie di investimento, riducendo del 50% l’esposizione negli Stati Uniti. Una mossa impensabile fino a pochi anni fa, quando il mercato americano era considerato il più stabile al mondo. Oggi quella reputazione scricchiola. Mentre la Cina investe massicciamente nel solare e nell’eolico offshore e l’Europa costruisce un quadro normativo favorevole alle rinnovabili, Washington rischia di trasformarsi da leader a terreno incerto. Lo stop a Ørsted, colosso europeo del settore, aggrava questa percezione: perché investire in un Paese dove persino un progetto completato all’80% può essere fermato dall’oggi al domani?
Indicatore | USA (Trump) 🚫⚡ | Unione Europea 🇪🇺 | Cina 🇨🇳 |
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Direzione politica | Ritorno al fossile, stop a solare ed eolico | Green Deal, neutralità climatica 2050 | Espansione massiva, strategia statale |
Stabilità normativa | Bassa: permessi centralizzati e ostacoli politici | Alta: quadro regolatorio solido ma complesso | Altissima: decisioni centralizzate e coerenti |
Capacità rinnovabile 2025 | In calo per blocco progetti e fine incentivi | Crescita stabile, ma vulnerabile a crisi finanziarie | Leader mondiale: oltre il 50% del solare globale |
Investimenti esteri | In calo, riduzione del 50% da parte di multinazionali (es. Engie) | Attrattivi ma rischiosi (caso Ørsted) | In crescita, con forte supporto statale |
Domanda elettrica (AI, data center) | In forte crescita, rischio blackout per mancanza di nuova capacità | Gestita con interconnessioni e mix energetico | Supportata da espansione rinnovabile e nucleare |
Posizionamento geopolitico | Rischio perdita leadership tecnologica | Normative avanzate ma senza potere industriale comparabile | Usa l’energia come leva di potere globale |
Il rischio di un corto circuito politico-industriale
La stretta sulle rinnovabili di Trump non è solo una scelta energetica: è un test di sistema. Sul piatto ci sono la stabilità della rete, la competitività industriale, la leadership tecnologica e la capacità di attrarre investimenti. In gioco c’è anche la credibilità geopolitica americana, in un contesto in cui energia e innovazione sono sempre più intrecciate.
L’America rischia un paradosso: difendere il fossile in nome dell’“affidabilità” e ritrovarsi senza abbastanza energia per alimentare le proprie ambizioni tecnologiche. La politica energetica diventa così non solo un dossier industriale, ma una questione di sicurezza nazionale e di equilibrio globale.