Sul fair share e sulla web tax Bruxelles arretra: l’UE rinuncia a strumenti fiscali e regolatori che avrebbero potuto riequilibrare il digitale, mentre Washington difende le big tech e consolida la propria leadership.
Nel nuovo accordo transatlantico sul commercio digitale, i rapporti di forza sono evidenti: l’Europa arretra, mentre gli Stati Uniti portano a casa una vittoria per i loro colossi tecnologici.
Faire Share: una richiesta improponibile
Il passo indietro più evidente riguarda il fair share.
L’Unione Europea ha infatti confermato che non introdurrà né manterrà i network usage fees – la proposta controversa di far pagare ai fornitori di contenuti parte dei costi delle infrastrutture di rete.
Per mesi gli operatori europei hanno spinto per questa misura, presentandola come una questione di equità, ma in realtà era una battaglia sbagliata, contraria ai loro stessi interessi.
Tassare le piattaforme avrebbe rischiato di soffocare l’innovazione, minare la neutralità della rete e ridurre proprio quella crescita dei servizi digitali che sostiene la domanda di connettività.
Per esser più chiari, le telco avrebbero forse guadagnato nel breve periodo, ma al prezzo di indebolire l’ecosistema da cui dipendono i loro investimenti futuri.
Finisce la storia infinita della web tax
Sul fronte della web tax, alla fine Bruxelles ha fatto un altro passo indietro. L’impegno a evitare “ingiustificate barriere al commercio digitale” equivale, nei fatti, a rinunciare a misure unilaterali che avrebbero potuto colpire direttamente le big tech americane. Ancora una volta, l’Europa arretra dopo anni di discussioni inconcludenti in sede OCSE.
Ora l’Europa dovrà chiedere il permesso a Washington
Anche il punto apparentemente più equilibrato – la conferma della moratoria in sede WTO sulle tariffe doganali per le trasmissioni elettroniche – finisce per avvantaggiare soprattutto gli Stati Uniti.
Per Washington, patria di giganti come Google, Amazon, Microsoft e Meta, significa accesso senza barriere ai mercati globali per servizi e piattaforme digitali. L’Europa, priva di campioni comparabili, trae benefici più indiretti, ma rischia in concreto di rafforzare la propria dipendenza dall’ecosistema americano.
Il testo prevede inoltre che l’UE “si consulti con gli Stati Uniti e con gli operatori americani” sull’attuazione della riforma doganale e sulla digitalizzazione delle procedure commerciali. Una formula che suona come cooperazione e trasparenza, ma che nei fatti limita l’autonomia europea: Bruxelles dovrà confrontarsi con Washington prima di muoversi su dossier strategici.
L’Europa arretra, resta da vedere se ce la farà a ripesare sé stessa.
Nel complesso, l’accordo riflette l’asimmetria che l’Europa non ha ancora saputo colmare.
Gli Stati Uniti difendono le loro imprese da nuove tasse, tutelano la libera circolazione dei loro servizi digitali e ottengono voce in capitolo sulla riforma doganale europea.
L’UE, invece, rinuncia a strumenti che avrebbero potuto sostenere investimenti infrastrutturali o generare nuove entrate fiscali, e lega ulteriormente le proprie mani.
Il risultato non è un semplice compromesso diplomatico, ma una vittoria strutturale per l’economia digitale americana.
La globalizzazione del commercio digitale, presentata come un bene comune, si rivela nei fatti un moltiplicatore del predominio statunitense.
Se l’Europa non troverà il coraggio di ripensare la propria politica industriale digitale, resterà un regolato in un mondo dove è Washington a scrivere le regole.