Educati dagli algoritmi. Se il linguaggio dell’AI diventa “tossico”

Giovanni Di TrapaniGiovanni Di Trapani
| 19/08/2025

Quando, nel 1976, Joseph Weizenbaum lanciò il suo allarme sull’uso indiscriminato del computer nella scuola, fu guardato con sospetto. Eppure oggi, alla luce della diffusione dell’intelligenza artificiale generativa, le sue riflessioni suonano più che mai attuali. Il celebre informatico del MIT, autore del saggio Computer Power and Human Reason, non era ostile alla tecnologia, ma criticava la sua trasformazione in ideologia: la convinzione che bastasse introdurre un computer in aula per migliorare la qualità dell’istruzione. Un’illusione che oggi si ripresenta, quasi amplificata, con le promesse miracolistiche legate all’adozione dell’AI.

Nel mirino di Weizenbaum c’era anche il linguaggio BASIC, definito “intellettualmente tossico”, perché semplificava l’informatica fino a svuotarla di senso critico. Un rischio analogo si intravede nei modelli linguistici generativi: producono testi plausibili, ma non comprendono ciò che dicono.

Come osserva il neuroscienziato Gary Marcus, questi sistemi “funzionano bene, ma non capiscono nulla”. Non pensano, ma imitano: offrono risposte coerenti, ma prive di intenzionalità, di contesto, di verità. Il rischio non è solo tecnico, ma pedagogico. Se affidiamo alle AI il compito di generare contenuti, risposte, perfino decisioni, senza educare al loro uso consapevole, stiamo preparando una nuova forma di analfabetismo critico, mascherato da efficienza. Il rapporto dell’UNESCO AI and Education (2021) lancia un avvertimento chiaro: introdurre l’intelligenza artificiale nella didattica senza un’adeguata alfabetizzazione etica e culturale può rafforzare disuguaglianze e passività.

E il punto centrale, allora come oggi, resta il medesimo: una società che si educa attraverso algoritmi rischia di perdere il senso del proprio linguaggio. L’AI non è solo uno strumento: è una grammatica nuova, che può abituarci a pensare per scorciatoie, a ridurre la complessità, a confondere la pertinenza con la verità. L’eredità di Weizenbaum è tutta qui. Non si tratta di opporsi alla tecnica, ma di ripensare il nostro rapporto con essa, prima che diventi un automatismo.

Perché la scuola, e più in generale la cultura, non ha bisogno di algoritmi che parlano in nostra vece, ma di coscienze che sappiano ascoltare, domandare, contraddire.

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