L’Europa rischia di trasformarsi in un “ammortizzatore” delle tensioni tra Washington e Pechino. Le distorsioni del commercio globale e le aspettative negative alimentate dai media colpiscono la stabilità macroeconomica delle principali economie europee.
L’Unione Europea nella nuova geoeconomia
Nell’attuale contesto di riassestamento globale – un tempo storico in cui gli equilibri geopolitici e commerciali vengono riscritti sotto l’impulso di forze che superano i confini nazionali e sfuggono, in larga parte, al controllo diretto dei governi europei – l’Unione Europea si trova nella delicata posizione di dover scegliere tra un rilancio profondo della propria integrazione economica e strategica o l’accettazione passiva di un ruolo subalterno, quello di soggetto che incassa, assorbe, modera le conseguenze delle decisioni altrui, senza avere voce in capitolo sul tavolo dove si decidono le regole del gioco globale.
Le recenti distensioni tra Washington e Pechino – formalizzate in un accordo raggiunto in Svizzera che prevede una tregua di 90 giorni sull’inasprimento dei dazi, con la riduzione da parte degli Stati Uniti delle tariffe sui prodotti cinesi dal 145% al 30% e da parte della Cina dal 125% al 10%, inclusa la revoca di misure ritorsive su terre rare e minerali strategici – sono state presentate come un segnale di apertura, una pausa nell’escalation iniziata ufficialmente lo scorso 2 aprile e salutata da Donald Trump come il “Liberation day”. E se da un lato il presidente americano ha definito l’intesa una “vittoria per gli Stati Uniti”, dall’altro il presidente cinese Xi Jinping, con tono più misurato, ha ricordato che “non ci sono vincitori in una guerra commerciale”, sottolineando come il protezionismo porti, inevitabilmente, all’isolamento.
Questa tregua, tuttavia, non modifica il quadro strutturale che si va delineando: un nuovo ordine commerciale globale in cui gli Stati Uniti cercano di rilocalizzare parte della propria produzione industriale e ridurre il proprio disavanzo commerciale con la Cina, mentre Pechino, spinta dalla necessità di mantenere alta la crescita interna, cerca nuovi sbocchi per le sue eccedenze produttive. In questo scenario, l’Europa si ritrova esposta a un rischio crescente: diventare – per la propria apertura commerciale, per la mancanza di strumenti comuni e per la lentezza delle risposte politiche – il ricettore passivo dei flussi distorti, il destinatario involontario delle eccedenze asiatiche che non trovano più accesso al mercato statunitense. Come osserva Michael Pettis, economista della Peking University, “l’Europa potrebbe non diventare un terzo polo, ma piuttosto un ammortizzatore – costretta ad adattarsi alle scelte degli altri senza influenzarne i risultati”.
Pressioni commerciali: numeri e strategia cinese
I dati commerciali confermano la tendenza in atto. Le esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti, colpite dai dazi imposti dalla precedente amministrazione americana e parzialmente riconfermati dall’attuale, sono diminuite del 21% solo nel mese di aprile, mentre nello stesso periodo quelle dirette verso la Germania sono cresciute del 20,4%. Non si tratta di uno scambio compensativo, ma di un chiaro segnale di dirottamento strategico: la Cina, per evitare contraccolpi interni, cerca nuove destinazioni per i propri prodotti, e l’Europa rappresenta – per apertura commerciale, dimensione del mercato e relativa debolezza politica – il candidato ideale.
Il surplus commerciale della Cina con l’UE ha raggiunto i 90 miliardi di dollari nei primi quattro mesi dell’anno, un record che deve più preoccupare che compiacere. Marjut Hannonen, capo della delegazione commerciale europea a Pechino, lo ha detto senza mezzi termini: “L’overcapacity è un problema enorme, trasversale, crescente – e non vediamo che la Cina intenda affrontarlo; anzi, si moltiplicano gli investimenti in nuova capacità produttiva, rendendo la situazione ancora più insostenibile”.
Il punto è che l’eccesso di offerta cinese non è un accidente del sistema, bensì un pilastro della sua strategia di crescita, basata sulla dominanza tecnologica e sull’efficienza di scala. Yanmei Xie, analista indipendente della politica economica cinese, ha dichiarato: “Chiedere alla Cina di ridurre l’overcapacity significa chiedere alla Cina di modificare il proprio modello economico – un’ipotesi, per dirla con realismo, del tutto irrealistica”.
L’effetto media sulle aspettative economiche
Se le dinamiche reali del commercio internazionale sono visibili nei flussi e nei bilanci doganali, gli effetti più immediati – e a volte più dirompenti – si manifestano sul piano delle aspettative, della fiducia, della percezione, ovvero su quel terreno intangibile ma determinante che orienta le decisioni di investimento, produzione e consumo.
Un recente studio pubblicato sull’European Journal of Political Economy (Beckmann et al., 2024) ha analizzato in profondità l’impatto della copertura mediatica del conflitto commerciale USA-Cina su Germania, Francia, Italia e Spagna, rilevando effetti consistenti e statisticamente significativi: in presenza di un’intensificazione delle notizie sul conflitto, peggiorano le aspettative sul saldo delle partite correnti, cala la produzione industriale, si registrano cadute repentine nei mercati azionari.
In Germania, il deterioramento delle aspettative è inizialmente attenuato da un effetto di sostituzione (un’apparente opportunità di guadagno derivante dalla minore concorrenza cinese negli USA), ma nel medio termine l’incertezza prevale, deprimendo la fiducia. In Italia e Spagna, invece, l’effetto è negativo fin dall’inizio. Le borse, sensibili al ciclo informativo, reagiscono con cadute immediate ma effimere, mentre la produzione industriale mostra un declino più lento e persistente – sintomo di una sfiducia radicata e meno reversibile.
Risposte europee: lentezze e divisioni
Di fronte a una simile combinazione di rischi – squilibri commerciali, crisi di fiducia, vulnerabilità strutturale – la risposta europea dovrebbe essere coesa, rapida, risoluta. Ma la realtà è un’altra: dominano incertezza politica, divergenze strategiche e lentezze procedurali.
Il nuovo cancelliere tedesco Friedrich Merz ha già escluso l’ipotesi di un debito comune, affermando con fermezza: “Non possiamo entrare in spirali di debito senza fine”. È una posizione coerente con la tradizionale ortodossia fiscale tedesca, ma che limita fortemente le possibilità di una risposta economica unitaria a livello europeo.
Luis Garicano, economista della London School of Economics, ha messo in luce un paradosso ormai insostenibile: “Il costo implicito del commercio intra-UE – cioè le barriere non tariffarie che ancora esistono tra i paesi membri – equivale a un dazio del 45% per i beni e del 110% per i servizi, più di quanto imposto dagli Stati Uniti alla Cina”. Mentre si negoziano accordi con India e Mercosur, il cuore del progetto europeo – il mercato unico – resta pieno di ostacoli e incoerenze.
Persino sul piano diplomatico, l’UE appare debole. I colloqui tra Parigi e Pechino per rimuovere i dazi sul cognac francese non hanno portato risultati. “La Cina gioca duro” – ha ammesso il ministro delle finanze francese Eric Lombard – “e l’UE non ha leve sufficienti”.
Integrazione o marginalità?
In un’epoca di transizione geopolitica – dove le regole cambiano, i blocchi si ridefiniscono, e le catene del valore si riallocano – l’Europa deve scegliere: restare spettatrice o diventare protagonista. E questa scelta non è una formula astratta da vertice internazionale, ma una questione molto concreta che riguarda il lavoro, l’industria, il ruolo dell’Europa nel mondo.
I dati raccolti da Beckmann et al. (2024) dimostrano che la percezione – generata dai media – può avere effetti reali, quantificabili, tangibili. E se un’Unione che resta immobile mentre le sue aspettative si deteriorano è destinata a perdere peso economico, una risposta politica forte e integrata potrebbe spezzare questo circolo vizioso.