Il Dipartimento di Giustizia punta allo smantellamento del monopolio tecnologico di Alphabet: sotto accusa l’integrazione strategica tra browser, intelligenza artificiale e motore di ricerca. In gioco l’equilibrio tra concorrenza e innovazione nell’ecosistema digitale globale.
Si apre a Washington uno dei processi antitrust più significativi dell’era digitale. Il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti (DOJ), supportato da una coalizione di procuratori generali statali, ha accusato Alphabet, casa madre di Google, di aver abusato della propria posizione dominante nel mercato della ricerca online, puntando oggi il dito anche sull’interconnessione strategica con i suoi prodotti di intelligenza artificiale.
Al centro del processo, un’accusa tanto storica quanto radicale: smantellare il monopolio di Google, imponendole la vendita del browser Chrome, interrompendo le partnership esclusive con produttori di smartphone e rendendo più equa la distribuzione di query e dati di ricerca.
IA e Search: un cortocircuito competitivo
Secondo il DOJ, l’integrazione sempre più stretta tra prodotti IA come Gemini e l’ecosistema di ricerca permette a Google non solo di migliorare i propri algoritmi, ma anche di canalizzare nuovi utenti verso il motore di ricerca, chiudendo il cerchio e consolidando il proprio vantaggio competitivo in modo strutturalmente anticoncorrenziale.
«È il momento di dire chiaramente a Google – e a tutti i monopolisti che osservano – che ci sono conseguenze per chi viola le leggi antitrust», ha affermato l’avvocato governativo David Dahlquist. Il DOJ vuole che il rimedio sia proiettato nel futuro: non solo correggere il passato, ma prevenire che la transizione verso l’IA generativa rafforzi ulteriormente il monopolio esistente.
Accordi esclusivi e concentrazione tecnologica
Il giudice federale Amit Mehta aveva già stabilito in precedenza che gli accordi esclusivi con Apple, Samsung e altri produttori di dispositivi avevano contribuito a mantenere la posizione dominante di Google. Ora, il processo si concentra sulla trasversalità di tali accordi, inclusi quelli per il pre-installamento dell’app IA Gemini, in grado di estendersi fino al 2028.
In aula sono attesi testimoni chiave come Nick Turley di OpenAI, mentre Google insiste nel difendersi definendo le accuse del DOJ una “lista dei desideri” dei concorrenti, e sottolineando che le sue innovazioni non dovrebbero essere punite, ma premiate.
«Fermare questi accordi vorrebbe dire alzare i prezzi degli smartphone e danneggiare partner come Mozilla», ha dichiarato l’azienda, che ha annunciato appello immediato in caso di sentenza sfavorevole.
Proposte radicali: dalla revoca dei contratti alla vendita di Android
Tra i rimedi più severi proposti dal DOJ figurano:
- la fine degli accordi esclusivi con i produttori di dispositivi mobili
- l’obbligo per Google di concedere in licenza i risultati di ricerca a concorrenti
- e, se le misure non fossero sufficienti, la vendita del sistema operativo Android, oggi installato su oltre il 70% degli smartphone globali.
Google, da parte sua, propone una soluzione più blanda: rendere i contratti non esclusivi, senza stravolgere il modello di business attuale.
Impatti sistemici e contesto geopolitico
Il caso si inserisce in un più ampio contesto di rafforzamento della regolamentazione antitrust verso Big Tech, avviato con l’amministrazione Trump e oggi continuato con pieno sostegno sotto il Dipartimento di Giustizia guidato da Merrick Garland.
Il DOJ ha recentemente ottenuto un’altra vittoria contro Google, relativa al suo dominio nel mercato dell’advertising, mentre altri colossi come Meta e Amazon sono a loro volta sotto inchiesta.
Una nuova era per il digitale?
L’esito del processo potrebbe ridisegnare l’architettura dell’internet moderno, ridefinendo le regole del gioco per il settore tecnologico globale. La posta in palio non è solo la leadership di Google, ma l’equilibrio tra concorrenza, innovazione e protezione del consumatore in un ecosistema sempre più plasmato dall’intelligenza artificiale.