Batterie all’uranio impoverito: come trasformare i rifiuti nucleari in energia

| 14/04/2025

Un gruppo di ricercatori dell’Agenzia giapponese per l’energia atomica (JAEA) ha sviluppato un prototipo che utilizza uranio impoverito per creare batterie ricaricabili. L’obiettivo è ambizioso: convertire uno dei rifiuti più problematici dell’industria nucleare in una fonte di energia stabile e a lungo termine, ridefinendo il concetto stesso di stoccaggio energetico

L’uranio impoverito rappresenta uno dei paradossi più evidenti dell’industria nucleare: prodotto in grandi quantità come scarto del processo di arricchimento dell’uranio, è altamente denso, leggermente radioattivo e difficile da smaltire. Tradizionalmente viene stoccato in grandi contenitori corazzati, oppure impiegato in settori particolari, come quello militare o aerospaziale.

Ma cosa succederebbe se si riuscisse a trasformare questo materiale da rifiuto pericoloso a risorsa preziosa? La proposta è semplice e audace: sfruttare il decadimento radioattivo dell’uranio impoverito per alimentare batterie a lunga durata.

Questa nuova visione potrebbe cambiare radicalmente non solo il destino dell’uranio impoverito, ma anche il futuro dello stoccaggio energetico globale.

Una nuova visione per lo stoccaggio su larga scala

Gli scienziati dell’Agenzia giapponese per l’energia atomica (JAEA) affermano che la batteria all’uranio potrebbe aiutare le fonti di energia rinnovabile, come i parchi eolici e solari, a fornire una produzione di energia stabile, fungendo da potenziale alternativa alle batterie agli ioni di litio di grande capacità. La loro batteria è la prima al mondo nel suo genere; gli scienziati ne hanno verificato le prestazioni di carica e scarica. Pur essendo ancora nelle prime fasi di sviluppo, questa tecnologia potrebbe trasformare le scorie nucleari in una risorsa.

La ricerca è stata condotta da Kazuki Ouchi, assistente ricercatore principale; Katsuhiro Ueno e Masayuki Watanabe, ricercatori dello Special Team for Battery Energy Storage, NXR Development Center, Nuclear Science Research Institute della Japan Atomic Energy Agency. Sulla base di questo lavoro, il 29 novembre 2024 è stata depositata una domanda di brevetto (Patent Application No. JP2024-209096).

L’industria nucleare giapponese ha lasciato in eredità 16mila tonnellate di uranio impoverito, prodotto secondario della produzione di combustibile nucleare. Negli Stati Uniti, in confronto, il Dipartimento dell’Energia ne conserva circa 750mila tonnellate.

Il prototipo, ancora in fase iniziale, propone una soluzione innovativa ai problemi di accumulo energetico che affliggono le reti elettriche moderne. Con la crescente penetrazione delle fonti rinnovabili, sempre più intermittenti, la necessità di batterie efficienti e durevoli è diventata critica.

Mentre le batterie tradizionali, come quelle al litio, si degradano dopo pochi anni di utilizzo intensivo, una batteria basata sul decadimento radioattivo dell’uranio potrebbe teoricamente funzionare per decenni senza perdere efficienza, offrendo una fonte di energia stabile e prevedibile.

Come potrebbero funzionare le batterie all’uranio impoverito

L’idea alla base della nuova tecnologia è quella di incapsulare minuscole quantità di uranio impoverito all’interno di dispositivi sicuri e schermati, in modo che il decadimento radioattivo possa essere convertito in energia elettrica attraverso processi termoionici o termoelettrici.

In pratica, l’energia rilasciata lentamente dall’uranio sarebbe catturata e trasformata in elettricità continua, senza parti mobili e con pochissima manutenzione. Questo approccio eliminerebbe molti dei problemi tradizionali legati sia alle batterie convenzionali sia allo smaltimento dei rifiuti nucleari.

Se si riuscisse a scalare, questa tecnologia potrebbe fornire sistemi di backup per infrastrutture critiche, basi remote, data center e persino città intere, riducendo la dipendenza da combustibili fossili.

I vantaggi strategici e i rischi

Utilizzare uranio impoverito per creare batterie presenta numerosi vantaggi.

  • Disponibilità: l’uranio impoverito è già abbondantemente disponibile come sottoprodotto degli impianti nucleari.
  • Durata: le batterie potrebbero durare decenni senza necessità di sostituzione.
  • Sostenibilità: ridurrebbe l’impatto ambientale e i costi associati allo stoccaggio a lungo termine del materiale.

Tuttavia, le sfide tecniche e normative sono significative. Il rischio principale è la sicurezza: anche se l’uranio impoverito è meno radioattivo dell’uranio naturale, la gestione di materiali nucleari richiede comunque standard elevatissimi di protezione e regolamentazione.

Inoltre, la percezione pubblica dell’uso di qualsiasi materiale radioattivo, anche in condizioni sicure, potrebbe ostacolare l’adozione su vasta scala.

Una competizione geopolitica sull’energia del futuro

In un contesto di crescente competizione globale per la leadership tecnologica, la possibilità di trasformare i rifiuti nucleari in risorse energetiche diventa una questione strategica. Cina, Stati Uniti ed Europa potrebbero vedere in queste nuove batterie non solo una risposta tecnica al problema energetico, ma anche un vantaggio geopolitico cruciale.

Il dibattito sul nucleare pulito è tutt’altro che chiuso. Se da una parte le energie rinnovabili sono il motore della transizione ecologica, soluzioni ibride come le batterie all’uranio impoverito potrebbero garantire quella stabilità di rete necessaria per abbandonare definitivamente il carbone e il gas.

Il team di ricerca giapponese sta ora sviluppando celle a flusso con elettrodi per una batteria di maggiore capacità. Il progetto più grande utilizzerebbe 650 tonnellate di uranio e avrebbe una capacità di 30 Megawattora, equivalente all’elettricità giornaliera fornita a 3.000 famiglie in Giappone.

Una soluzione che viene da lontano

Le batterie ricaricabili all’uranio erano state proposte circa 25 anni fa da Yoshinobu Shiokawa della Tohoku University e da Hajimu Yamana e Hirotake Moriyama della Kyoto University.

Secondo Kazuki Ouchi della JAEA, l’inclusione del ferro nel progetto è stata una parte fondamentale del nuovo prototipo. In particolare, l’utilizzo di ioni di ferro con diversi stati di ossidazione ha contribuito a stabilizzare la soluzione elettrolitica. Combinando un elettrolita di ferro con un elettrolita di uranio, i ricercatori JAEA hanno raggiunto una tensione di 1,3 volt nel prototipo, vicina a quella di una comune batteria alcalina da 1,5 volt, ed è stata in grado di accendere un piccolo LED. La batteria è stata caricata e scaricata 10 volte, durante le quali le sue prestazioni sono rimaste pressoché invariate, il che indica un ciclo relativamente stabile, secondo i ricercatori.

Durante i cicli di carica e scarica, il colore della soluzione elettrolitica di uranio è passato dal verde al viola e di nuovo al verde, riflettendo i diversi stati di ossidazione.

Alla domanda sui problemi di sicurezza legati all’uso dell’uranio impoverito, il team ha suggerito che le preoccupazioni potrebbero essere affrontate con una schermatura adeguata.

Il futuro delle batterie radioattive

“Il concetto di batteria all’uranio può offrire spunti interessanti come banco di prova per le prestazioni degli elettroliti non acquosi, ma presenta problemi significativi, tra cui la sicurezza e il peso dell’uranio”, afferma David Howey, professore di scienze ingegneristiche all’Università di Oxford, specializzato nella tecnologia delle batterie ma non coinvolto nella ricerca.

La batteria si scontrerebbe anche con le tecnologie esistenti. “Le tecnologie esistenti per l’accumulo stazionario, come le batterie agli ioni di litio e le batterie a flusso, hanno avuto molti anni di sviluppo e di messa in scala, e quindi sono molto più competitive in termini di costi rispetto alle nuove tecnologie a causa della legge di Wright”, afferma Howey, riferendosi al fenomeno della diminuzione dei costi all’aumentare della produzione.

“Ogni nuova tecnologia deve offrire un percorso per arrivare a costi estremamente bassi con l’aumento della produzione, e in questo caso non è ovvio quale sia questo percorso e se sia accettabile dal punto di vista ambientale e politico”, aggiunge Howey.

Mentre il prototipo di batteria all’uranio impoverito è ancora lontano dalla commercializzazione, l’interesse del mondo scientifico e industriale cresce. Il successo di queste batterie potrebbe non solo risolvere due grandi problemi contemporaneamente – gestione dei rifiuti nucleari e stoccaggio energetico – ma ridefinire anche il concetto stesso di sostenibilità energetica.

Resta da vedere se si riuscirà a superare la naturale diffidenza verso l’uso di materiali radioattivi e se il sistema industriale sarà in grado di adottare standard di sicurezza adeguati. Ma una cosa è certa: trasformare il decadimento radioattivo in energia a lunga durata è una delle idee più visionarie, e forse più necessarie, dei nostri tempi.

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